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Notti di Pizzica un libro di Gianmaria Ferrante

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"Notti di Pizzica" un libro di Gianmaria Ferrante - Youcanprint 2017

 

Si sa, col tempo le distanze si fanno più lontane e le assenze troppo prolungate spesso si dimenticano. Così, per contrastare questa verità, si dice che il passato prima o poi ritorna a rammentarci chi siamo. È allora che non si ci può dimenticare che esiste, che il passato è parte di noi, di quanti l’hanno vissuto in prima persona e anche di chi nò, ma che avverte di avercelo nel sangue, nel proprio attaccamento alla propria terra d’origine. Si dice anche che una terra possa entrarti nell’anima e diventare ‘madre adottiva’ di quanti la ‘vivono’ nelle proprie viscere o per simbiosi elettiva, e anche di chi ne respira l’afflato direttamente dalle antiche vestigia del tempo. Come appunto nel caso dell’autore di questo libro, Gianmaria Ferrante, nativo delle valli bergamasche che una volta calato al Sud è stato travolto dalla ‘fascinazione’ disarmante e accomodante della sua musica. Del resto accade e non si può fare nient’altro che abbandonarsi ad essa, di lasciarsi condurre nelle spericolarità della vita.

Con ciò mi rivolgo a quelle ‘nuove generazioni’ che nate negli anni ’80/’90, hanno conosciuto l’avanguardia musicale del Sud, se non proprio direttamente, magari attraverso le sporadiche incisioni discografiche del Sud Sound System, il cui tentativo, più o meno riuscito, si proponeva di aprire ad una prima forma di contaminazione musicale tra l’hip hop (ragamuffin salentino) e la tradizionale ‘pizzica pizzica’, tipica di quella vasta area denominata Salento. In quegli anni erano almeno due i gruppi di ‘riproposta musicale’ esistenti sul territorio, il Canzoniere Grecanico e i Tamburellisti di Torrepaduli che si davano il cambio sulla scena delle Università e nelle feste di piazza, ma non tutti apprezzarono l’idea e le iniziative messe in campo, causa il riferimento al ‘tarantismo’ e alla ‘pizzica pizzica’ terapeutica, ai vecchi riti e credenze dei contadini del sud, in contrasto coi neo-riti metropolitani in voga.

Ciò nell’intento – così si diceva allora – di preservare identità, tradizione e radici di una presunta purezza e originalità incontaminata, in quanto bagaglio della propria cultura formativa, per quanto nel corso dei secoli, la cultura popolare della regione avesse subito a più riprese l’influsso di credenze e ideologie d’origini diverse, altrettanto solide, argomentate e diffuse in altre regioni limitrofe, tipiche dei popoli medio-orientali greci, turchi, albanesi, bizantini e islamici. Una prima constatazione infatti, fu che i cosiddetti ‘portatori’ della tradizione, a differenza dei protagonisti della scena avanguardistica metropolitana, si mostrarono più disponibili e adattabili a ogni nuova situazione e per nulla inibiti dalla questione identitaria. Per quanto, sul piano storico-teorico e sociale, prevalentemente in quegli stessi anni, si era approdati alla conclusione accademica di ridimensionamento della sfera elettiva, per cui: ’la tradizione è un’invenzione’, e l’ ‘identità è un mito’.

Nulla di più essenziale del ‘mito’ e niente più affascinante dell’invenzione della ‘tradizione’ per introdurre questo nuovo libro di Gianmaria Ferrante in cui, seppure sulla scia di una ricerca che inizialmente s’avvale di testimonianze sul campo, per l’appunto – il mito; tende a ricreare situazioni verosimilmente attendibili di un certo passato, direi alquanto suggestivo, dacché la ‘re-invenzione’ poetico-narrativa ormai diventata latente, si rianima per l’occasione in queste pagine stracolme di vita. Viene da chiedersi quale migliore forma di seduzione avvolge il lettore, se non quella di sentirsi protagonista di una storia che in qualche modo gli appartiene? Quale onesta sollecitudine l’assale, allorché superato lo scoglio della memoria (che può non avere presente), si ritrova a camminare sulle impronte dei padri e magari dei nonni, o di quei trisavoli che hanno segnato la storia di quella che oggi riscopriamo essere d’appartenenza della nostra civiltà contadina?

Non a queste domande risponde l’autore di questo libro redatto con linguaggio ‘schietto e verace’ al pari di un gioco di carte che si ripropone a quanti, seduti intorno al tavolino, magari (anzi certamente) davanti a una brocca di buon vino fatto alla vecchia maniera, si raccolgono a brindare ‘alla salute!’ e ‘alla vita!’, dopo una giornata passata ccon la schiena piegata nel duro lavoro della terra, alla raccolta delle olive o alla mietitura, e perché no, al dolce vendemmiare. Purché poi si vada tutti insieme a ballare sull’aia al suono della fisarmonica e del tamburello, sulle canzoni-a-storno che s’incastrano nel tema della ‘pizzica pizzica’, insieme canto apotropaico e imprecazione, preghiera ed esaltazione, rito magico e divinazione, sullo sfondo di una religiosità sommersa che s’aggira ancora oggi sotto altre sembianze, e che entrata nella cultura musicale contemporanea, funge da ‘suggestivo’ richiamo d’innumerevoli masse.

Quella stessa suggestione che ha infatuato lo scrittore Gianmaria Ferrante nello scrivere ‘Notti di Pizzica’, sulla scia delle ‘Notti della taranta’ che istituzionalizzata e spettacolarizzata (come quella seguita recentemente in TV in forma di concerto ‘rave’), è ‘vissuta’ con trasporto etnocoreutico durante un’intera notte da migliaia di fan sostenitori che giungono da ogni parte del mondo, letteralmente esorcizzati dall’endemica ‘possanza’ (Posse) della musica e ancor più dall'antica ‘diavoleria’, descritta da Ernesto De Martino in ‘Sud e Magia’. Il quale per primo ha istituzionalizzato l’immagine del ‘tarantismo’ nella riproposta culturale della musica popolare. A differenza del ‘tarantismo’ di esecuzione magico-religiosa, la ‘pizzica pizzica’ si presenta oggi con un ritmo e uno stile che è perfettamente compatibile con il quadro di negazione della passività, o della soccombenza alla trance spirituale.

La ‘pizzica pizzica’, suonata per giorni o addirittura settimane per la cura delle tarantate, aveva spesso caratteristiche proprie che la differenziavano da quella suonata per il ballo o come la chiamavano alcuni, la ‘taranta’, eseguita con un ritmo in genere più accelerato rispetto a quella suonata per il ballo, e molto spesso le tonalità più frequentate erano quelle cosidette 'minori', capaci di ‘scazzicare’ (ossia stimolare) più facilmente la tarantata grazie al carattere ridondante e malinconico che le tonalità minori appunto posseggono. L’odierno motto: ‘Ballati moi, ballati tutti quanti, ballati forte’, ben rende il proposito postosi nel processo di diffusione della musica e della danza popolare come forma di aggregazione comunitaria, sempre più crescente e coinvolgente a tal punto da poter attribuire ad essa valore di rappresentatività delle identità locali e della storia del territorio comprensivo del Salento e in altre subregioni della Puglia, come la Bassa Murgia e Matera, appartenuta anch'essa alla Terra d'Otranto.

Questo libro rientra in quest’ottica fatta propria dallo scrittore nelle tante storie che lo compongono e nei suoi molteplici personaggi, certuni davvero indimenticabili  e più 'realistici’; altri catturati dall’esperienza ‘vissuta’ sul territorio; altri ancora ‘immaginari’, ripresi, per così dire, da ‘soggetti terapeutici’ di una realtà ludica che, per l’appunto, si manifesta nelle ‘Notti di pizzica’ e che, in qualche modo, si rifanno ai rituali curativi dei morsicati (veri o presunti) dalla Lycosa Tarantula. Cioè in quelle notti ove il pizzico della ‘tarantola’ è più mordace e accresce nel soggetto tarantolato la smania dell’agitazione corporale e/o spirituale che a volte assume aspetti che vanno dall’ ‘indiavolato’, seguito dalla guarigione ‘miracolosa’; alla ‘fantasmata’, in cui i fantasmi del passato fanno ritorno a chiedere laggio o, a rivendicare l’affronto della ‘morte’.

 

Fandonie, direte voi, ma che certe cose siano davvero accadute, è di fatto innegabile.

 

Ed eccoci così arrivati al punto, per cui tanto vale lasciarci prendere dal rapimento del racconto e, poiché più delle parole contano i fatti, godiamo nel rileggerci com’eravamo, non senza una certa vis comica che, oggi, ci fa sorridere:

 

Da ‘Tre compari’. . . .

«La musica era un mezzo assai diffuso da quelle parti per esprimere gioia e dolore. La incontravi nei vicoli alla nascita di un bimbo, la notte quale serenata alla ragazza tenuta in casa sottochiave; ai matrimoni, durante i funerali, al tempo della mietitura, dopo una vendemmia. In pratica diventava l’essenza di quella gente semplice che sapeva commuovere anche il più incallito esattore delle tasse, convincendolo spesso a rimandare un poco la riscossione del dovuto, avvisare per l’arrivo di qualche tipo altolocato e senza cuore, dando così il tempo necessario per smontare il cono dei trulli e non pagare un soldo agli esattori del Regno. Non esistevano scuole adatte o maestri di grido, direttori d’orchestra o teorici del contrappunto, ma tutti andavano ad orecchio fidando nella cultura musicale formatasi in tante occasioni di ballo.

C’era poi chi accennava un canto, dapprima a mezza voce, poi sempre più deciso in base agli applausi d’incoraggiamento. A volte si univa al compare un tipo col violino incontrato dal barbiere. Se qualcuno poi ereditata una mezza fisarmonica, con l’aggiunta di una chitarra si formava un trio. Allora diventava una faccenda seria … Pare che bevessero in quantità sufficiente a liberare i vincoli segreti (…), così, dopo aver suonato abbastanza, messi da parte gli strumenti, i tre si sbottonavano raccontando maldicenze di paese; quelle già note alle comari di vedetta negli angoli strategici della zona, ma anche i segreti più riposti di certi frescono, notoriamente definiti come tipi ‘alla bona’.»

 

Da ‘La vedova nera’. . . .

«Nei campi rinsecchiti da un sole tremendo si aggira spesso un ragno pericoloso. Non visto, rilascia il suo marchio a qualche donna addetta al raccolto del grano e un veleno particolare, difficile da neutralizzare. In passato, allorquando non c’erano ospedali specializzati per porvi rimedio era necessario abbandonarsi a un ritmo indiavolato, portato avanti per ore, onde espellere le tossine del suo fluido mortale. Gli strumenti suonavano per tutta la notte, anche il giorno seguente, finché la donna esauriva ogni sua energia cessando di rotolarsi a terra. In parecchi assistevano all’evento, ma il ruzzzolare di quella donna tarantata non era certamente un bello spettacolo da vedersi.

Si racconta anche della continua ricerca di una serpe maligna, magari un saettone che non la mordesse, ma fece di peggio: la fissò negli occhi inserendo nell’anima un richiamo pressante, impossibile da contrastare. (…) Continuò così per mesi, scarmigliata e stanca girando per i campi, chiamando chi le aveva impresso nell’animo quel richiamo irresistibile; guardando nei buchi sui muri, nei cespugli delle forre selvatiche. Poi una follia silenziosa la ridusse a cancellare qualsiasi amicizia. L’estate successiva si allontanò dal paese e non vi fece più ritorno, ma parve a qualcuno che fosse tornata in gran segreto nella Sierra Rotta alla ricerca di chi la chiamava nel sonno. Poi non la si vide più, forse sparita nella voragine di quella terra maledetta, aperta in un lontano possato da uno sconquasso tremendo.»

 

Da ‘Donne pericolose’. . . .

«Il giorno della festa era di sabato. Benché si lavborasse tutto il giorno, salvo per riposare la domenica, li abitanti della masseria con famiglia propriearia , braccianti, avventizi e giovani donne addette alla raccolta del grano, oltre a una schiera di bimbi sempre di corsa, si ritrovarono per una festa ch’è rimastra negli annali della zona. La voce si sparse dappertutto, anche fuori contrada. (…) Convocarono i suonatori più conosciuti. Il cieco leo di Funieddo, Linuddo lo Zueppo e Pino Reale con Irina, diventata sua moglie e ormai aggregatasi al gruppo. Si aggiunge poi Nino di Milano con Ziella, donna splendida e gran ballerina di ‘pizzica’, capelli neri sciolti al vento, una rosa rossa fermata con forcina d’osso, camicetta grigio perlat, gonna nera molto ampia con fascia rosso carminio in vita.

Di sera arrivarono anche ‘Ntonuccio lu Fiscolo e suo padre, entrambi a bracceto del nonno che, fatto assai strano, lasciò sguarnito il frantoio con dentro l’olio di un inverno intero; quindi Seppo il Sensale, sempre alla ricerca di qualche affare, e Maestr’Antonio, il falegname rimasto solo, oltre a parecchie bimbe, saltellanti prima ancora che cominciassero a suonare. (…) L’invito ufficiale venne fatto da Tommaso il Cantatore, noto per le strofe amorose pronunciate durante ogni matrimonio; in fondo era l’unica attrazione di quel periodo, naturalmente escludendo i suonatori in giro per contrade alla ricerca di un pasto sostanzioso. A ogni frase con rima lui riceveva un applauso, poi beveva, giusto per santificare il fatto (e la festa). E quandol’esternazione poetica si prolungava più del necessario, di peso lo portavano fuori a prendere un po’ di fresco, così per rianimarsi un poco. (…) Quindi il piccolo gruppo riprese a suonare, ma ormai il ritmo si era addolcito rilasciando per tutti canzoni d’amore e fratellanza sincera. Alcuni ripresero a danzare, altri si commossero o rimasero seduti colloquiando fra loro. (…)

A tarda sera qualcuno intonò un canto, ereditato forse dai naviganti che fecero sosta in passato a Torre dell’Orso e si sfidarono con spade e coltelli, mentre uno zufolo accompagnato da un tamburello li spingeva a danzare. Quella sera il coro della gente crebbe di forza fino a investire la luna con un raro sentimento di fratellanza, poi tutti se ne tornarono a casa o salpavano l’ancora, ma quella musica sarebbe rimasta impressa nella loro memoria, fino alla prossima occasione della festa.»

 

Bibliografia essenziale:

Di Gianmaria Ferrante, romanziere, saggista, poeta, si conosce una folta produzione letteraria, tra cui i romanzi: ‘Un uomo di successo’ Ed. BookSprint; ‘Quaranta notti’ Europa Edizioni; ‘Gli amori verdi’ Ed. rpa Letteraria. Inoltre a una forbita produzione poetica raccolta in ‘Metropolis’ ed in ‘Mediterranea’ Ed. Golden Press International Edition, (vedi recensione su questo stesso sito).

 

Sitografia: www.gianmariaferrantescrittore.it www.ipoderidelsole.it

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